Argentina, che brutto posto…
Anzi, no
di Gianni Paris
Si può scrivere una pagina di diario se nel bagno del tuo studio c’è qualcuno che si sta facendo di eroina? Si riesce a parlare della dittatura in Argentina ai tempi della desapariciòn se in quel bagno c’è un giovane che sta muorendo giorno dopo giorno? No, credo proprio di no. E allora questa è la storia dei miei ultimi quattro giorni.
Mercoledì. Viene allo studio un imbianchino, grande e grosso.
Ho deciso di passare ai colori forti. Obiettivo: lavorare e scrivere meglio. Ogni stanza con una tinta che più etnica non si può. Quattro stanze imprevedibili come le stagioni del mio cuore. L’imbianchino, che io conosco dalle fasce, è un vicino di casa. Di lui so tutto. E tra il “tutto” so pure che è entrato nel tunnel. Un giorno ha assaporato la polvere bianca e dalla polvere bianca è passato all’accendino che scalda qualcosa e che passa in un ago. Ecco, ho chiamato l’imbianchino grande e grosso per parlargli, per cercare di aiutarlo. Alla fine del mercoledì, lui carteggia tutte le pareti di una stanza e mi sembra lucido. Penso che stia uscendo dal circolo vizioso, anche se il suo cellulare riceve centoundici squilli di gruppo.
Giovedì. Alle dieci, l’imbianchino grande e grosso torna a carteggiare le pareti, sempre della stanza che sarà viola. Gli porto la colazione (latte macchiato, più tre brioche), e lui sembra contento di lavorare nella stanza che sarà viola. Nel pomeriggio di giovedì, sento però un accendino urlare troppe volte. L’urlo proviene dal bagno del mio studio, la povera stanza bianca. Quando l’imbianchino grande e grosso esce dalla stanza bianca è sudato come se avesse appena poggiato a terra cento chili di qualcosa. Sempre nel pomeriggio, l’imbianchino passa a stuccare e ad attaccare, nella stanza viola, le greche in polistirolo. È bravo, nel suo lavoro. Prima delle diciannove, quando decide che è il momento di tornarsene nel suo mondo, l’imbianchino grande e grosso riceve duecentotre squilli di gruppo.
Venerdì. Alle undici, l’imbianchino grande e grosso torna nella stanza viola. Sembra fidanzato col colore che è in quel barattolo, seppure non abbia nemmeno provato a dargli un bacio come si deve. In questo terzo giorno, finalmente, riesce a sporcarsi le guance di viola. La stanza prende il giusto tono, ma lui, l’imbianchino grande e grosso, appare spento. Vorrei chiedergli qualcosa del suo tunnel. Vorrei sapere quanta luce c’è e come si respira, ma non mi sento pronto. Non è facile parlare del sangue altrui. Alla fine del venerdì, le pareti della stanza destinata ad essere viola non sono all’altezza della situazione. Su quattro pareti, tre sono viola macchiato, per niente uniformi, e una ancora bianca. L’imbianchino grande e grosso riceve duecentocinquanta squilli di gruppo. Anzi, no, duecentocinquantuno.
Sabato. Alle undici e poco più, l’imbianchino grande e grosso entra nel mio studio. O meglio, alle undici e poco più l’imbianchino entra nel bagno dello studio. Ci sta per venti minuti. Io provo a chiamarlo. Dopo la seconda richiesta, lui mi risponde. Scarica lo sciacquone del water ed esce. Di fronte mi trovo un’altra persona. Occhi spenti e rossi, e spalle piegate in avanti. Lui dice di non sentirsi bene. Mi parla di problemi intestinali, ma il suo intestino funziona benissimo. Mi racconta che i suoi genitori lo hanno tenuto per tutta la notte fuori dalla porta. Non sopportano il tunnel. Mi chiede anche di fare colazione, l’imbianchino grande e grosso. Dice, Vorrei bere del latte e caffè. Più caffè, s’è possibile. Io esco e dopo un po’ gli porto ciò che mi ha chiesto, aggiungendo anche due bignè alla crema. Lui si siede e, senza mie domande, maggiucchiando, mi parla del suo tunnel. La sua voce è perdente, calante, e io capisco che la stanza viola neanche oggi si sentirà soddisfatta. Io gli dico di andare a stendersi, lui fa cenno di sì col capo, e mentre mi volta le spalle torna lo squillo di gruppo, immancabile.
Ah, stasera incontro Vinicio Capossela e non credo gli parlerò dell’imbianchino grande e grosso.